Considerazioni sulla la puntata di ieri di Report, che sono finalmente riuscita a vedere.
Dico finalmente perché mi era montata l’ansia: da ieri sera le mie timeline sono state invase da un coro di voci scandalizzate come se fosse successo chissà che.
Poi si scopre che Prada delocalizza per risparmiare e che le oche vengono spiumate per fare i Moncler.
La cosa mi ha meravigliato. (Anche perché: lavoro nella moda e nel lusso. La maggior parte dei miei contatti questi due settori li bazzica, o quantomeno è un appassionato. Ma come non lo sapevate, dove vivete?
Esattamente la stessa cosa che ho pensato per lo scandalo H&M due settimane fa).
Comunque: parliamo della puntata.
Le oche. Siamo d’accordo, povere bestie. È una tortura far la ceretta, figuriamoci essere spiumati a sangue quattro volte l’anno.
Adesso che conoscete l’arcano – ma non è che ci volesse Frate Indovino per scoprire da dove viene quella morbida piuma – se avete a cuore la sorte delle oche, smettete di comprare roba che dalle oche proviene.
Basta Moncler, ma basta anche guanciali, trapunte danesi e foie gras.
E poi, se siete proprio coerenti, preoccupatevi a in eugual misura anche di tutte le altre bestiole che per un motivo o per l’altro facciamo fuori.
Voglio dire: il pollo che sta nel mio forno ha forse meno dignità del visone appeso nel mio armadio, o dell’oca spiumata da Moncler?
La Transnistria. Ecco io questo posto lo conoscevo, grazie a questo libro qui.
Quando l’ho letto ho fatto gli incubi sulle fabbriche di Ceausescu.
Comunque: come mai capi tanto belli devono venire da posti tanto orrendi?
La risposta è semplice, e un filo deprimente.
I marchi del lusso in realtà non fanno moda, fanno finanza.
(E infatti sono, con pochissime eccezioni, parte di holding internazionali giganti).
Vanno solo dove i numeri dicono che conviene.
Questo, va da sè, non è mica un male: sono aziende che riescono a fare profitti altissimi.
Perché se a volte risparmiano sul prodotto, le Maison non lesinano certo sulla comunicazione, nè sulle location che scelgono per i loro negozi, nè sul training del personale.
È la cosiddetta “brand experience“, che giustifica -secondo alcuni – un cartellino da duemila euro su giaccone Made in Moldovia.
Sì, c’è gente per cui questo scambio è equo. E gente per cui no. Credo che possiamo convivere in pace.
[quote text=”L’esclusività che si basa sul prezzo
non è l’unica forma di esclusività possibile” float=”left” size=”8″]
Voglio sottolineare però, che questa non è l’unica formula del lusso.
Per esempio, c’è la lodevole strada intrapresa da Cucinelli, citato per l’appunto anche da Report.
E ce ne sono però altre mille: perché “di lusso” vuol dire esclusivo, e l’esclusività che si basa sul prezzo alto non è che una delle strade possibili.
Per fare degli esempi che mi riguardano, c’è quella che una multinazionale chiamerebbe Made to Measure, e che io chiamo andare dalla sarta, per farmi fare un cappotto su misura.
(Vi assicuro: con la crisi che c’è in giro, va a finire che se compri la stoffa lo paghi poco più che da Zara).
Poi ci sono le piccole aziende del territorio, che detta così suona una cosa pallosa, ma che spesso producono anche per grandi nomi e hanno linee proprie anonime, ma di qualità sorprendente.
Ovviamente c’è il vintage, mio primo amore, al quale mi avvicinai in principio per un’altissima qualità media dei capi a fronte di prezzi studentella-friendly.
E infine c’è lui, l’Internet, che grazie a posti come Etsy consente a chiunque produca qualcosa di mettersi online, e di farsi trovare.
Ma soprattutto, che ci consente di informarci, di documentarci, di indagare…
O anche solo di toglierci una curiosità, il tutto comodamente dal nostro divano.
Per non dire mai più, dopo una puntata di Report “Ah, ma io non lo sapevo”.
Questo articolo ha 4 commenti
Il blog di Elisa Motterle copre parecchi punti su cui concordo. Pero non commenta, su un punto rilevante a tutta l’italia attuale: l’argomento che costa di meno produrre altrove vuol dire che Made in Italy è morto. Cuccinelli riesce a tenere una impresa con valori sia economici che fashion che communitari. E per questo che veramente fanno schifo queste aziende che fanno parte dei gruppi multinazionali. Guarda la storia di LVMH e Bernard Arnault. E tipico dei ultimi 10 anni. Acquista, strappa il valore del brand per mantenere / aumentare vendite e delocalizzare per ridurre costi. Pero la muore una fabbrica, si impoverisce una citta (un altro esempio è Grenoble, città di Playtex). A me mi rattrista questo. NON BASTA SERVIRE IL DIO PECUNIA.
@Pil, produrre altrove costa indubitabilmente meno.
Il problema è che oggi la gente è abituata a ri-conoscere la qualità. Quindi si fa facilmente abbindolare da un’etichetta prestigiosa, oppure, se la grriffe non c’è, trova naturale pagare pochissimo. La verità è che produrre in Italia costa di più. Non prezzi da Montenapoleone, ma neanche da H&M, o Zara o affini.
Pingback: Quello che non vorresti vedere: Alexander WangxH&M | Elisa Motterle
Pingback: Acquisti consapevoli: quattro esempi in pratica | Elisa Motterle