Puntualmente in ritardo, sono riuscita a visitare la Fondazione Prada.
Dico in ritardo perché ci passo davanti due volte al giorno: il mio ufficio sta duecento metri più avanti, proprio sulla stessa strada. Per mesi, abbiamo convissuto coi faranonici caniteri di Rem Kolhaas.
Ma alla fine, quando il 9 maggio è arrivata l’inaugurazione, non ero nemmeno troppo curiosa.
Intanto perché il mio Instagram – e il mio twitter, e il facebook– sono stati sommersi da uno stream di snapshot tutti uguali, che ritraevano la famosa torre dorata alternata ai flipper anni’50 del Bar di Wes Anderson. (Bonus point se fotografi un’opera. E level up se conosci anche l’autore).
E poi perché io, che mi son laureata con una tesi sulla natura morta del ‘600, ho un rapporto conflittuale l’arte contemporanea, soprattutto con quella che va “di moda”.
Non è che non mi piace: ma diciamo che, per principio, diffido.
Con queste premesse, alla alla Fondazione ci sono capitata senza aspettativa alcuna, per un pigro aperitivo di fine luglio.
E invece, ci ho trovato la prova provata della genialità della Miuccia.
C’è una mostra in corso che si chiama Serial Classic: un’esposizione che ha raccolto sotto un unico tetto varie copie romane – in diversi esemplari – di famose statue d’epoca greca.
Ora: che i romani abbiano riprodotto in serie moltissime opere greche non è certo una novità.
Oggi le varie “copie” si trovano sparse in diversi musei del mondo: Prada ha pensato di riunirle – almeno temporaneamente – sotto un solo tetto, con l’intento (Miuccia dixit) ” di un gesto politico (e contemporaneo) che dimostra che l’originale assoluto non esiste”
Cioé, ci pensate?
Un marchio di moda tra i più contraffatti al mondo che celebra la dignità della copia.
Un cortocircuito concettuale che dà la misura dello spessore intellettuale della padrona di casa.
Chapeau Miuccia, che dio ti benedica.