Una cosa che mi ha incuriosito fin dai miei primi acquisti di vintage è la questione delle taglie. Come mai, se di solito sono una 40 oppure una 42, quando acquisto capi vintage mi serve spesso una 44, se non addirittura una 46?
La risposta è semplice (per quanto assurda) e si chiama Vanity Sizing.
Di cosa si tratta?
In pratica, si tratta di ridurre artificialmente le taglie degli abiti, per solleticare la vanità dei clienti.
Una specie di “inflazione”, per cui la taglia nominale (ovvero quella che è stampata sull’etichetta) è diventata più grande – in termini di centimetri – nel corso degli anni.
Per dire:un girovita di 70 cm oggi corrisponde a una 42.
Negli anni ‘80, lo stesso girovita era riferito a una taglia 44.
E andando indietro nel tempo, addirittura a una 46.
Il vanity sizing si è diffuso moltissimo a partire dagli anni ‘90, quando il marketing si è accorto che i clienti erano più propensi all’acquisto se riuscivano ad entrare in una taglia “desiderabile” (e cioé più piccola).
Possiamo discutere di quanto questo sia sbagliato, sciocco e irrazionale.
Eppure…
Chi non è felice, quando riesce ad entrare in una taglia più piccola di quella che acquista di solito?
E chi non prova disagio e frustrazione quando la zip non sale, e si è costretti a chiedere una taglia in più?
Le case di moda si sono semplicemente accorte di questo meccanismo, e hanno cercato di volgerlo a proprio favore.
A facilitare l’operazione ha contribuito il fatto che il sistema per determinare le taglie è sempre stato piuttosto arbitrario.
Finché gli abiti venivano cuciti su misura, il problema infatti non si era mai posto.
Solo quando si è cominciato a produrre in scala industriale, è nata l’esigenza di avere delle taglie-standard.
Siamo negli anni ’40, all’alba del pret-à-porter.
Negli Stati Uniti, paese all’avanguardia nella produzione industriale di abiti, viene creata un’apposita commissione dal National Bureau of Standards. Il suo compito è misurare periodicamente svariate migliaia di donne, e ad elaborare statisticamente i dati raccolti, per determinare le “taglie tipo”.
Dopo un lavoro durato circa un decennio, la commissione elabora 27 taglie-tipo, che vengono condivise con i produttori di moda.
E questo sistema delle taglie viene esportato anche in Europa (dove è poi adattato in modo diverso per ciascun paese) insieme al Piano Marshall.
Ma per vari motivi, dagli anni ’70, l’adozione di queste taglie “approvate” non è più obbligatoria.
E negli anni ’80 la commissione di ricerca dedicata viene addirittura abolita.
Oggi, sono istituti privati come Astm International a raccogliere i dati relativi alle misure antropometriche della popolazione, e ad elaborare in tabelle che diventano poi la base per creare le taglie dell’abbigliamento.
Ma la verità è che ognuno è libero di fare come vuole.
Infatti, vi sarete senz’altro accorti che le dimensioni di una stessa taglia possono variare notevolmente da un marchio all’altro.
Qui, un tool online per determinare la propria taglia dei diversi marchi. Basta inserire le misure di seno, vita e fianchi per scoprire che in base al brand selezionato, potremmo aver bisogno di taglie diverse.
I marchi presenti sono prevalentemente americani e inglesi, ma è comunque divertente provarlo, anche solo per vedere quant’è vero che la taglia è un numero arbitrario, e nulla più.