Burberry & Co.: quando la moda va in fumo

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Qualche giorno fa, Burberry ha bruciato 30 milioni.
Letteralmente, proprio.
Il brand ha mandato all’inceneritore stock di abbigliamento, borse e profumi per un valore di 28 milioni di sterline, oltre trenta milioni di Euro.

La notizia è rimbalzata sui media, anche perché alcuni azionisti hanno alzato il sopracciglio.

Non si sarebbero potute organizzare delle svendite, di questi abiti?
Donarli, al limite?
Come la mettiamo con la sostenibilità?

Sono tutte domande legittime, epperò la pratica di bruciare gli stock è più diffusa di quanto si pensi.
E le ragioni per ricorrervi sono sono diverse.

La prima, e la più ovvia, è la distruzione dei falsi: in cina organizzano addirittura falò-show dove vengono messi al rogo i prodotti contraffati.

Poi c’è il tema dei difettati: Hermès è l’esempio più famoso. La maison parigina, celebre per le lussuosissime borse e le infinite liste d’attesa, elimina senza pietà ogni esemplare men che perfetto. In giro, non troverete una Birkin con un punto allentato, o una Kelly con la stampigliatura Hermès  un po’ storta. Semplicemente perché non esistono: il controllo qualità è inesorabile, ed è una delle ragioni per cui Hermès siede stabilmente nell’Olimpo del lusso.

moda in fumo

Infine, parliamo di Burberry. Chi lavora nel fashion, non si sarà stupito più di tanto: benché fatta in sordina, la distruzione degli stock è una pratica corrente.
E succede soprattutto nei mega-brand.
Perché finché produci una collezione da distribuire in dieci negozi in giro per l’Italia pianificare è facile. Quando hai quattro collezioni l’anno, tante linee di vendita e centinaia di negozi ai quattro angoli del globo, azzeccarla diventa un po’ più difficile.

Quindi. Blame it agli stock planner, alle pazzie del meteo, al buyer che ha cannato oppure al competitor ti ha fregato una fetta di mercato, la morale è che probabilmente, a fine stagione, ti troverai con un bel po’ di merce invenduta.

Ovviamente, la prima soluzione sono gli outlet: ma il flusso dei capi è costante, perché nel frattempo stagioni e collezioni vanno avanti, e anche gli outlet devono mantenere un certo standard.
I brand di lusso stanno bene attenti a non rendere disponibili – almeno nei canali di cui hanno il controllo – prodotti più vecchi di 2/3 collezioni. Ne va della Brand Image, nessuno vuole apparire datato, nè eccessivamente accessibile.

Il passo successivo sono le svendite, che possono essere dedicate solo agli empolyee oppure estese a fornitori, amici e parenti. Di quelle di Armani avevo parlato qui. All’epoca – alla mia domanda su “Ma come sono possibili questi prezzi?” un collega più sgamato mi rispose: “Hanno senso invece, perché mandare le cose all’inceneritore ha un costo”.

Perché il problema è che di svendite non se ne possono fare troppe.
Essere percepiti come “difficilmente raggiungibili” è un assett fondamentale di qualunque brand del lusso: e una svendita non lavora esattamente in questa direzione.
E poi c’è un ulteriore downside: le friends&family sale alimentano drammaticamente il mercato parallelo, su cui i brand non hanno alcun controllo. Si tratta dei vari Vestiaire Collective, Esty e Ebay ma anche delle vendite su Fb, IG, Depop e perfino gruppi watsapp. Perché esistono, ve lo giuro: stocchisti che lavorano solo su gruppo watsapp.

Questo sottobosco è il TERRORE dei megabrand: perché è qui (principalmente) che il loro prodotto rischia di finire addosso a persone ritenute “indesiderabili”.
Cosa vuol dire? Semplice: se il tuo iconico check (com’è successo a Burberry) finisce addosso a tutti gli hooligan della curva sud del Manchester, forse il tuo posizionamento come esclusivo brand del lusso viene un filino messo in discussione.
Il tuo marchio perde appeal, le tue vendite calano e i tuoi azionisti piangono: ecco perché devi evitarlo a tutti i costi.

È un po’ la filosofia del “chi più spende meno spende”: ne avevo parlato già qui. I grandi marchi preferiscono affrontare una spesa certa oggi piuttosto che andare incontro alla minaccia di diminuire la brand equity. E blindano l’esclusività del marchio anche se questo vuol dire, letteralmente, mandarlo in fumo.

 

Questo articolo ha 10 commenti

  1. Sara

    Incredibile!!! Avevo sempre ignorato questa “ pratica “ dei brand del lusso. Ti sono grata per avermi illuminato- come fai spesso del resto –

    1. Elisa

      Grazie Sara, sono felice se risco a condividere un po’ di quel che ho imparato con la mia esperienza 🙂

  2. Melanie

    Senza parole! Non sapevo ci fosse questa pratica nei grandi brand della moda del lusso e non sapevo ci fossero delle motivazioni simili! Grazie per aver condiviso questa informazione :):)

    1. Elisa

      🙂 Grazie a te per avermi letta

  3. Chiara

    Di grande attualità. Finché il riciclo dei prodotti tessili non diventerà competitivo per l’industria questo fenomeno è destinato a ingigantirsi…

    1. Elisa

      Ma più che altro io penso: abbiamo i filtri antiparticolato sulle auto, le caldaie controllate nelle case…
      è possibile che il mondo del fashion possa continuare a produrre capi-spazzatura a ritmi forsennati?
      Anche perché le fibre se sono mescolate ad altre non sono riciclabili se non con enormi difficoltà…Insomma io credo ci sia tanto greenwashing e poca sostanza

  4. Giagia - Fior

    Tremendo, il pensiero istintivo . . . Ma pensandoci razionalmente, è giusto! 😉

    Grazie della condivisione di questa notizia, mi rende più consapevole di come va il mondo! 😀

    Ciao Giagia

  5. Rosalba

    Pensavo che questa pratica fosse la normalità del fast fashion e invece scopro, con grande stupore, che vengono bruciati capi costosissimi. Grazie per aver condiviso.

    1. Elisa

      Ma no, il fast fashion non brucia (ma inquina moltissimo comunque)

  6. Rosangela

    Grazie Elisa, ignoravo anche io tutto questo.

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