Non so voi, ma io l’affaire Dolce&Gabbana me lo sono goduto veramente.
Riconosciamolo: Stefano e Domenico nell’ultima settimana ci hanno regalato LO spettacolo perfetto.
Roba che se ne capitasse uno a settimana, Netflix diventerebbe superfluo.
Perché l’epic fail dei D&G si è consumato in tempo reale sotto ai nostri occhi, travasando dai social al mondo fisico per poi tornare indietro, regalandoci momenti di puro surrealismo. È stato uno show omnicanale e cross mediale: si è materializzato in un flusso ininterrotto di news, challenge sui social, azioni di guerrilla marketing, ha prodotto un sacco di analisi interessanti (come questa, questa e questa), oltre che una tempesta di meme.
Anatomia del Fail perfetto
Come tutti sanno, la polemica è nata sui social, in seguito a degli spot del brand giudicati “indelicati”. Una cosetta che pareva innocua, tutto sommato.
Ma poi, colpo di scena: @Diet_Prada pubblica gli screenshot di una conversazione privata di Stefano Gabbana in cui lo stilista insulta la Cina, i cinesi tutti e – già che c’è – pure i transessuali.
Apriti cielo: in cinque minuti su Ig, Facebook e Twitter non si parla d’altro.
Passa qualche ora e Stefano Gabbana dichiara che il suo account è stato hackerato. Ma è la classica toppa peggiore del buco: primo perché non gli crede nessuno (anzi, l’occasione diventa propizia per ricordare che lo stilista non è nuovo agli insulti via social) e secondo perché il suo annuncio contribuisce a tenere alta l’attenzione sull’argomento.
Come dire: i social media fatti bene.
Passa qualche altra ora e arriva l’annuncio-choc: la faraonica sfilata in programma a Shanghai per la sera successiva è cancellata all’improvviso.
(Qui, se avete voglia, potete leggere un resoconto di prima mano di una modella che avrebbe dovuto sfilare.)
Diamogliene atto: la svolta cross channel è veramente avanti.
Poi è il momento dello spin-off. Sui social parte una challenge. La sfida tra ragazzi cinesi è quella di trovare un modo creativo per distruggere i propri capi Dolce&Gabbana. C’è chi si limita a tagliare le etichette, chi li usa per pulire il water, chi li adopera come stracci per la polvere e chi si accanisce con le forbici sul ritratto dei due designer.
A questo punto, per chiudere la questione, D&G rilasciano IL video. Una clip in cui i due stilisti, con facce da funerale, chiedono scusa ai cinesi pronunciando frasi di circostanza.
Un capolavoro di surrealismo che Dalì e Magritte a confronto erano due pivelli.
Nonostante questa pubblica ammenda pare che, ad oggi, i cinesi delle scuse non se ne facciano niente.
I negozi del brand sono stati presi di mira: sulle vetrine sono apparsi cartelli “Not Me” la frase usata da Stefano Gabbana per tentare di discolparsi.
I siti di e-commerce cinesi hanno fatto sparire tutto il prodotto Dolce &Gabbana.
E anche alcuni store fisici stiano eliminando il marchio dai propri scaffali
Il ruolo della Cina nel lusso
Tutto questo con un tempismo che sembra fatto apposta.
Esattamente nella settimana del black friday, e solo dieci giorni dopo che Bain ha dichiarato con gran battage che la Cina “sarà il primo mercato per il lusso entro il 2025”.
Quando si dice: l’ironia della sorte.
Per me, è come se la globalizzazione fosse arrivata a chiedere il conto.
Per decenni, l’Occidente ha usato la Cina come polo produttivo a basso costo.
Ma anche se abbiamo affidato all’Oriente gran parte della nostra produzione-moda, noi occidentali non abbiamo smesso di guardare gli orientali dall’alto in basso. “Made in China” diciamo, per dire qualcosa a basso costo. “Cinesate” chiamiamo gli oggetti di poco prezzo.
È ora di dircelo: nella moda e nel lusso, noi Italiani (assieme ai francesi) siamo degli snob totali.
Per carità, qualche motivo di vanto ci sarebbe pure: moda, galateo ed eleganza sono tutte cose che abbiamo inventato noi.
Ma dai nostri giorni di gloria sono ormai passati secoli.
Invece, in Cina, nel corso degli ultimi vent’anni l’industria (tessile, ma non solo) ha conosciuto un enorme sviluppo, in parte grazie anche alle delocalizzazioni. Così è nata una nuova classe imprenditoriale e benestante, fatta sia da industriali milionari, che da una media borghesia sempre più ampia.
Ma mano a mano che il benessere nel paese si diffondeva, la Cina per i brand del lusso è diventata una “cash cow”, letteralmente una mucca da mungere. Con la sua economia in crescita, l’enorme popolazione e la demografia di giovani iperconnessi e golosi di benessere occidentale, il paese di Mao è diventato l’eldorado del retail. Un posto mitologico, dove i centri commerciali nascono come funghi, e dov’è sufficiente aprire un negozio per vedere i fatturati crescere a doppia cifra.
Peccato che questa aggressiva politica commerciale non sia sia stata supportata dalla volontà autentica di capire il mercato (che poi vuol dire: conoscere le persone).
A dispetto del crescente peso della voce “Cina” nei bilanci, i marchi del lusso fanno fatica a dialogare davvero con i cinesi. La Maison sfornano gadget per il capodanno cinese, organizzano sfilate sulla Grande Muraglia, ingaggiano testimonal locali. Ma nessuna “parla” davvero cinese: ci si limita – con una certa arroganza – a trasportare in oriente quello che funziona in occidente, senza la minima volontà di mettersi in discussione.
Perché il lusso Italiano non si tocca, e se non lo sappiamo fare noi non lo sa fare nessuno.
La verità, per come la vedo io, è che ci siamo addormentati sugli allori.
E casi come quello di Dolce&Gabbana sono qui per dirci che è arrivata la sveglia.