Sabato 8 settembre sarò al FutureVintageFestival di Padova, per parlare di moda e femminismo. Il mio intervento “The road to female empowerment” vuole esplorare il ruolo che hanno avuto gli abiti nel cammino verso la parità di genere (Vuoi partecipare? Clicca qui)
L’argomento sembra frivolo, vero?
Nel pensiero comune, fino a tempi assai recenti, in effetti moda e femminismo non andavano molto d’accordo. L’argomento sembrava troppo effimero per sposarsi con la causa. Le donne impegnate nella lotta per la parità di genere erano dipinte come delle dure&pure, troppo impegnate a combattere battaglie sociali per preoccuparsi di abbinare le scarpe alla borsetta, o per tingersi i capelli.
E le femministe, da parte loro, hanno da più parti accusato la moda di essere uno strumento di oppressione, usata per trasformare le donne in oggetti.
Queste signore in effetti non avevano tutti i torti.
Nella storia, gli abiti sono stati tra gli strumenti più efficaci per “tenere a bada” il gentil sesso.
Gli esempi non si contano: dai panier del ‘700 che rendevano difficoltoso qualunque movimento, alla tradizionale legatura dei piedi in cina, che ha reso impossibile camminare a milioni di bambine, ai corsetti che per secoli hanno tolto il fiato alle nostre antenate.
Da subito, fu chiaro che qualunque liberazione delle donne avrebbe dovuto passare anche attraverso i vestiti.
(Provateci voi a fare la rivoluzione con addosso busto e crinolina.)
Nella seconda metà dell’ottocento, pioniere come Amelia Bloomer, Rose Bonheur e George Sand – tra le prime intellettuali ad pronunciarsi in favore della maggiore libertà femminile- sfidano lo status quo, indossando pantaloni.
Ci vorranno comunque cent’anni e due guerre mondiali per far sì che i calzoni siano accettati di diritto anche nel guardaroba femminile, ma il seme è gettato. [Per la cronaca, in Francia, la norma che vietava alle signore di indossare pantaloni in pubblico è rimasta formalmente in vigore fino al 2013]
Pochi anni dopo, le suffragette scelgono come divisa il tailleur, un abito austero e ispirato al guardaroba maschile, per mettere in atto almeno negli abiti la parità di genere per la quale si battevano.
La prima guerra mondiale arriva ad accelerare le cose, imponendo l’abbandono del busto e degli scomodi abiti belle epoque. Gli uomini sono al fronte, e le donne devono rimboccarsi le maniche: una moda più comoda e funzionale è la prima e più ovvia conseguenza del nuovo ruolo femminile nella società. Una volta finito il conflitto, le donne non sono disposte a tornare indietro: il corsetto viene mandato in pensione e la prima volta, le ragazze si tagliano i capelli, liberandosi delle ingombranti chiome e del loro carico di femminilità.
Oggi, a un secolo di distanza , fashion system e femminismo stanno vivendo una luna di miele.
“Empowerment is the new black” si dice. Il femminismo è di moda, e la Moda coglie la palla al balzo.
Così, il millennial pink è il colore del momento, sui red carpet le dive si vestono in nero per dichiarare la loro adesione al #metoo, mentre gli slogan femministi si ritrovano su magliette e borse di swarovski.
A volte, l’operazione sembra un po’ spregiudicata.
Il femminismo è ridotto ad essere un trend, ed è destinato a sparire tra qualche stagione?
Basta una t-shirt con uno slogan a renderci femministe?
Cosa sta facendo l’industria della moda, in concreto, per migliorare la condizione delle donne?
Sono tutte domande legittime. E non sempre le risposte sono semplici.
Ma quello che secondo me è fondamentale è che oggi, queste domande possiamo farcele.
E per questo dobbiamo ringraziare le donne che hanno combattuto questa battaglia, che ci hanno regalato la libertà scegliere cosa indossare e cosa pensare.