Qualche giorno fa, quando è stata ufficializzata la chiusura di Myself, su FB mia timeline è stata inondata da commenti tipo “Che peccato”, “Anche i migliori se ne vanno”, “Vergogna” e via dicendo.
(Si vede, dai post dei miei contatti, che ho lavorato in Condé Nast.)
Aldilà del dispiacere genuino che provo, senza riserve, per amici&conoscenti che si trovano a lavorare in un clima degno del terrore di Robespierre, dove non si sa quale sarà la prossima testa a cadere, mi chiedo:
Ma davvero qualcuno si meraviglia?
Sul serio c’è chi casca dalle nuvole all’idea che un mensile “per donne non più giovani” non arrivi a 200k copie?
Che non raccolga pubblicità a sufficienza?
Io stessa, tecnicamente, sono “non più giovane”. E comunque, anche mia mamma usa l’internet ormai, suvvia!
La buona notizia, comunque è che Myself vivrà nel sito di VanityFair (perché lì un canale non si nega a nessuno).
[E no, cari amici condenastiani, non sto criticando il vostro amato vanity.it. Mi chiedo solo quale senso abbia gestirlo così.]
Ma allora, non sarebbe stato meglio puntare sul digitale fin dapprincipio (visto che la testata è stata lanciata appena tre anni fa) invece di arrivarci oggi per ripiego?
Ah, no aspetta: si chiama lungimiranza quella.
E nell’editoria italiana non è di casa.
Prova ne sia il fatto che che queste riviste (VF in testa) hanno delle versioni digitali che sono una pura e semplice trasposizione del cartaceo, e dei siti instabili, non ottimizzati per mobile (!) che ti crashano perennemente l’iPad.
Poi guardi Porter, e vedi come dovrebbe essere un giornale di moda nell’era digitale. E ti accorgi che non lo fa un editore, ma un e-tailer. Ops!
Tra l’altro parlando di cose digitali fatte bene, si chiude il cerchio perché si torna al tema della pubblicità – quella che manca tanto agli editori. Ecco, quella pubblicità lì come la intendono loro, una bella pagina stampata e via, è morta e sepolta e sarebbe il caso di farsene una ragione.
Oggi esiste la rete, ed esistono conversazioni.
Chi non si adatta, fa la fine di Myself.