Oggi il femminismo è di moda.
E la Moda cavalca l’onda, simpatizzando con il movimento #metoo, e sfornando t-shirt che inneggiano alla sorellanza globale.
Ma è da sempre che l’empowerment femminile passa anche attraverso vestiti.
Ci ho pensato l’altra mattina, davanti all’armadio: ci sono tante cose che diamo per scontate. Ci sono capi che oggi è normale indossare, ma che per lungo tempo sono stati proibiti (se non erano addirittura tabù sociali).
Oggi, anche se tendiamo a dimenticarcene, godiamo i frutti di secoli di lotte per liberare il corpo femminile da gabbie e sovrastrutture.
Più volte, nel corso della storia, la moda ha sancito il nuovo ruolo sociale della donna, ed è servita a ribadire la sua voglia di emancipazione e di indipendenza. Dalle flapper che hanno letteralmente dato un taglio con il passato, all’unisex che ha aperto la strada alla rivoluzione di genere, ecco i trend del ‘900 che hanno espresso l’empowerment al meglio.
Il taglio à la garçonne
Oggi moltissime donne sfoggiano un taglio corto.
Ma fino all’arrivo delle flapper, negli anni ’20, rinunciare alle proprie chiome sarebbe stata una cosa del tutto impensabile. Da sempre, la chioma era considerata la suprema arma di seduzione (e per questo, le donne sposate portavano sempre i capelli raccolti, i il capo coperto).
I capelli venivano tagliati solo in caso di grave malattia, oppure per entrare in convento.
Durante l’epoca vittoriana poi, la capigliatura diventa un vero e proprio feticcio: merito anche dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, meglio conosciuta come Sissi, e dei suoi leggendari capelli.
Fino alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, le chiome di portano lunghissime, acconciate – di giorno – in pettinature rigonfie.
Ma negli della Prima Guerra Mondiale , le cose cambiano radicalmente. Non c’è tempo per passare ore davanti allo specchio, e le toilette pompose appaiono improvvisamente demodé.
È in questo contesto che le prime flapper lanciano il taglio à la garçonne, sfidando la millenaria identificazione della donna con la sua chioma.
Le donne hanno appena conquistato il diritto di voto (in Usa ed Inghilterra, per lo meno) e rivendicano il loro posto nella società. Le fragili bamboline della Belle Epoque appartengono al passato: la donna contemporanea è agile, funzionale. Senza busto e senza fronzoli.
I pantaloni
Durante la Seconda Guerra Mondiale, le donne si trovano a dover indossare i pantaloni, in senso figurato e letterale.
Mentre gli uomini sono impegnati al fronte, rimangono solo loro a mandare avanti la vita civile, a supportare lo sforzo bellico e la vita domestica. Sono numerosissime le ragazze che lavorano in fabbrica, e altrettante quelle che svolgono mansioni fino ad allora considerate esclusivamente maschili, come l’autista o il facchino.
Spesso, la tuta da lavoro è una semplice necessità. Ma i pantaloni vengono adottati per questioni di praticità anche nel quotidiano: i carburanti sono razionati, e la bicicletta è il mezzo di trasporto più diffuso. Il
A guerra finita, è vero, la moda diventerà di nuovo frivola. Dior porterà in auge le gonne ampie e pure gli stringivita. Ma i pantaloni intanto si sono conquistati un posto nel guardaroba femminile. E le donne non saranno più disposte a rinunciarvi, in alcuni casi anche a dispetto della legge. Nella città Parigi, per dire, il regolamento che proibiva alle donne di indossare i calzoni per strada è stato abrogato solo nel 2013.
La minigonna
Può un indumento sfacciatamente sexy essere anche femminsta?
Sì, e la minigonna è qui per dimostrarlo.
Nata a Londra nei primi anni’60, la mini è la versione fashion del movimento di liberazione sessuale che fiorisce intorno al ’68.
La libertà di fare quello che si vuole con il proprio corpo è il fil rouge che lega moda e costume.
La minigonna è la divisa della nuova generazione – quella dei baby boomers – che in questi anni rivoluziona la società. I giovani, negli anni ’60, sfidano apertamente la mentalità borghese. E le ragazze che entrano all’università o nel mondo del lavoro, rifiutando di vedersi solo come mogli e madri, sono sempre più numerose. La mini rappresenta perfettamente queste nuove donne. Femminili, giovani, indipendenti. Padrone di sè e del proprio corpo.
La minigonna è stata anche un capo controverso, cosa che naturalmente non ha fatto che aumentarne la fama.
Dal suo debutto, non si contano i tentativi fatti per vietarla: ancora oggi capita di leggere sui giornali di qualche preside che vuole bandirla da scuola. Alcune femministe, inoltre hanno condannato la minigonna come “maschilista” perché promuoverebbe un’immagine della donna sessualizzata.
Insomma, amata o odiata, la mini fa discutere.
L’unisex
Nella anni ’70 dal punto di vista del costume succedono un sacco di cose, e l’invenzione dell’unisex è a mio avviso la più rivoluzionaria. In occidente, per dire, maschi e femmine non vestivano così uguale tipo dall’antica grecia.
Dalla fine degli anni ’60, nella moda i generi cominciano a convergere.
Nella moda maschile – ed è la prima volta dal 1700 – tornano i colori e le stampe. È la breve (ma intensa) Peacock Revolution, che riporta broccati, ricami e fantasie appariscenti nell’abbigliamento maschile, in chiave informale e quotidiana.
Nella moda femminile, invece, stilisti come Yves Saint Laurent sperimentano per l’ispirazione androgina. E vestono le donne con tailleur pantalone, smoking e capi rubati al guardaroba di lui.
Il maschile va verso il femminile e viceversa: il confine di genere si fa sempre più sfumato.
Finché non arriva l’unisex ad abbatterlo definitivamente.
Le tute d’ispirazione workwear e le salopette – tornate oggi prepotentemente di moda – sono i capi più significativo di questa tendenza.
Per niente casuale che tutto questo accada negli anni delle grandi battaglie femministe e per i diritti civili.
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