Io non faccio più la giornalista di mestiere da un po’.
Perchè ci ho rinunciato l’avevo spiegato qui.
Però, pur essendo la mia stata una scelta (quasi) obbligata, non c’è giorno che io non senta la mancanza della vita di redazione.
Poi vedo come stanno i miei amici giornalisti.
I pochi fortunati che hanno un contratto regolare si lamentano (nonostante, e io glielo ricordo sempre, i mille benefit di cui godono).
Perché, nonostante tutto, per loro le cose stanno peggiorando, devono fare di più con meno risorse, e il loro futuro è sempre incerto grazie alle logiche illogiche che governano le case editrici.
Quelli che un contratto da giornalista non ce l’hanno, resistono finchè possono. Perchè i free-lance vengono usati e abusati finchè c’è bisogno, poi un bel giorno, senza preavviso, ciao. Conosco pure chi è stato mandato via in modalità “retroattiva”: sembra uno scherzo, ma purtroppo è vero. Diciamo che a un certo punto tutti (o quasi) arrivano a capire che una lavoro, per quanto sia il più bello del mondo, non vale la rinuncia alla propria dignità.
Ecco, in questo panorama desolante devo dire che mi ha fatto piacere leggere la lettera di scuse firmata da Stefano Fabbri.
Perché lo stato di disgrazia in cui versa giornalismo, duole dirlo, è in gran parte colpa dei giornalisti stessi.
Che -con pochissime eccezioni – per tanto, troppo tempo, hanno negato la rivoluzione (digitale) in corso.
Di questo, e di molto altro, ha parlato recentemente anche Marco Alfieri, direttore de Linkiesta.
E io non ho altro da aggiungere. Però, che tristezza eh?